
IL RISO DELLA SOUBRETTE
Romanzo
Presentazione di Gilberto Pizzamiglio
Firenze, Editori Loggia de’ Lanzi, 2001
In copertina:
Collage di Alessandra Pucci
Paola Azzolini, Recensione, Leggere Donna, n. 97, marzo-aprile 2002.
Daria Martelli ha pubblicato il suo terzo romanzo, e chi l’ha seguita nelle due prove narrative precedenti ritrova lo stile agile e disinvolto, il gusto dell’intreccio, la capacità di delineare caratteri e psicologie complesse che già aveva catturato i lettori e li aveva inchiodati in una lettura senza pause fino all’ultima riga. A proposito del romanzo Le vite di Fabrizia (1997) avevamo usato il termine “giallo”, per indicare con un temine che ormai designa un genere letterario, la capacità di strutturare un intreccio come “inchiesta”, disseminando prove e indizi, riservando però una sorpresa finale. Ma Daria va più in là del thriller, di cui pure utilizza alcune strutture portanti: se è vero che il nocciolo delle vicende che racconta è nella psicologia complessa dei personaggi, è vero anche che questa complessità si carica di interrogativi più gravi, investendo lo statuto stesso dell’esistenza. In questa e nelle altre storie romanzesche persiste un nucleo insieme dolente e profondo che fa affiorare alcune delle domande più serie e più irrisolvibili. Chi siamo? Che cosa significa scrivere? Forse dare corpo alle nostre inespresse identità. Ma qual è la nostra identità più vera? E esiste un’identità o questa è una domanda che resta sospesa su di noi fino alla fine?
Qualcuno potrebbe pensare ad una sorta di pirandellismo. Ma non si tratta di questo, dal momento che il gioco dei doppi e delle scissioni è pieno dei salubri veleni della psicanalisi, filtrata da una problematica e una sensibilità femminile, che, anche alle prese con personaggi maschili, vede il peso degli stereotipi culturali e la capacità di deformare la nostra percezione dell’io che ad essi è legata.
Anche questo romanzo, un po’ come il precedente, Le vite di Fabrizia, dove si svolgeva il dramma di una doppia/tripla personalità, propone una sorta di scambio delle parti fra due protagonisti, l’uno l’opposto dell’altro: un insegnante quarantenne, di modeste condizioni, con la passione dello scrivere, che non riesce a pubblicare e un pubblicitario di successo, che ha capito qual è la ricetta per ottenere soldi, donne e tutto quello che si può desiderare per far apparire ben chiara agli occhi altrui la propria condizione di arrivato. I due si affrontano e specchiano l’uno nell’altro la reciproca incompatibilità. Ma alla fine i ruoli si invertono, proprio perché la chiave di un radicale mutamento è l’esperienza dello scrivere che coinvolge tutt’e due e ne cambia le prospettive di esistenza.
Lo sfondo entra in attiva dialettica con le vicende: la Milano degli anni ottanta, luogo del successo, la scuola, il mondo grigio dove non cambia mai nulla e infine l’underground dell’editoria piratesca a pagamento, che sfrutta quella che gli inglesi chiamano vanity press. Quest’ultima parte è particolarmente nuova, fino ad assumere un certo sapore di denuncia. Varrà la pena di ricordare a questo proposito, a titolo di cronaca, il libretto di Stampa Alternativa Editori a perdere, presentato con un certo clamore alla Fiera del libro di Belgioioso dello scorso autunno, dove sono illustrate, con bella autoironia, le ribalderie perpetrate contro la vanità letteraria dell’autrice, Miriam Bendia, impiegata Tim e patita della scrittura. Anche Daria esplora con toni ironici e farseschi il sottobosco editoriale, dove il tipografo sogna di diventare un nuovo Arnoldo Mondadori e invece diventa anche lui, come gli autori che sognano il successo, vittima di un imbroglione che incassati i soldi prende il largo. Sono pagine efficaci e molto godibili, dove la capacità ironica e realistica di Daria si esprime con vera efficacia. Episodi di questo genere, inventati ma molto simili al vero, sono un mezzo efficace per farci riflettere sulle spaventose risorse della vanità, capace di autoilludersi e di alimentare con la propria ingenuità i più spaventosi imbrogli. E naturalmente prendono rilievo per contrasto gli editori piccoli e onesti, che svolgono la funzione di scoperta dei veri talenti, trascurati dalla grande editoria, divenuta oggi troppo spesso soltanto editoria commerciale, come se vendere libri fosse la stessa cosa che vendere salami.