LE VITE DI FABRIZIA
Romanzo
Milano, Edizioni La Vita Felice, 1997
In copertina:
Acquerello di Alessandra Pucci (1997)
Il libro è dedicato alla memoria di Angela Gorini
Gianna Marcato (Università di Padova),
“Le vite di Fabrizia di Daria Martelli: un’immagine linguistica del mondo al femminile”, Relazione letta alla presentazione del romanzo, Mirano (VE), Villa Errera, 22 maggio 1998.
Una linguista, quale sono io, è portata a cercare il significato di un libro attraverso le parole, quasi come uno che, posto davanti ad un bell’oggetto, invece di girargli attorno e accontentarsi di guardarlo, incominci a smontarlo e ad osservarlo nei pezzi che lo compongono.
Questa potrebbe sembrare un’ingiustizia verso un romanzo, per chi è abituato a confrontarsi con i modi della critica letteraria; trovo tuttavia incoraggiante un’osservazione che ho sentito più volte ripetere da Andrea Zanzotto riguardo la poesia: essa appartiene per metà a chi la scrive, per metà a chi la legge. Così un romanzo è tanti romanzi quanti sono i suoi lettori, che sono parte integrante dell’opera. Le vite di Fabrizia (Ed. La vita felice, Milano) è già stato interpretato in molti modi: questa mia interpretazione non sarà dunque che una delle tante possibili.
Del resto ogni opera letteraria è interessante anche dal punto di vista linguistico, anzi proprio da questa prospettiva deriva la possibilità di gustare appieno la materialità di un testo, nel suo giocare, in modo irripetibile e personale, con i “segni” in cui siamo tutti culturalmente immersi, un po’ come nell’aria che incessantemente respiriamo. L’immagine creata dalla lingua è molto potente proprio grazie al valore connotativo della parola, che va molto al di là del suo significato lessicale, e scivola spesso nell’inconscio di ciascuno. Leggendo parole che descrivono scene ed eventi, entriamo in una sorta di immagine filmica ancor più forte di quella affidabile ai fotogrammi, perché la lingua, il più elaborato dei codici comunicativi, riesce a dire tutto ciò che ciascuno degli altri codici separatamente dice, mediando in profondità ogni nostra esperienza e sensazione.
Secondo la sociologia della comunicazione la lingua è una vera e propria forma di azione sociale. Soprattutto la narrativa ha il potere di premere per modellare aspettative e comportamenti, incidendo a fondo nella percezione dei ruoli. Per questo è interessante osservare se, all’interno di questo genere letterario, la lingua venga usata per rendere trasparente l’immagine di un protagonismo femminile, o, al contrario, per nasconderlo, producendo così un modellamento di tipo maschilista. Naturalmente questo vale sia per i testi scritti da uomini che per quelli scritti da donne.
Da alcuni anni, con un gruppo di ricerca composto da studiose di diverse università europee, stiamo studiando i segni che le donne lasciano (o meglio alle donne è consentito di lasciare) nella lingua parlata e scritta, e le “presenze” che vengono invece opacizzate o nascoste proprio per influsso dei condizionamenti sociali e culturali sull’uso linguistico.
Come avviene questo? La lingua italiana, per una propria regola interna che guida gli usi grammaticali, avrebbe sempre la possibilità di distinguere il maschile dal femminile e di concordare il genere, e quindi più di altre lingue europee sarebbe potenzialmente trasparente alla presenza delle donne. Tuttavia una norma d’uso (che all’origine è un fatto non linguistico, ma storico e sociale, fattosi a tratti più forte della regola costitutiva) tende a restringerne gli ambiti di trasparenza, usando il maschile generico (che ci si ostina a definire “neutro”, ma nella lingua italiana “neutro” non è) al posto del femminile e concordando al maschile anche dove la lingua prevederebbe una possibilità al femminile. Così di fatto si viene a dare una rappresentazione al maschile e a delineare un mondo in cui la donna, proprio nella misura in cui è compartecipe di nuove esperienze al di fuori dei ruoli tradizionali, viene “nascosta” dal lessico, e quindi resa “non protagonista” in quanto donna proprio dall’uso che si fa della lingua.
Che cosa rivela l’analisi linguistica del romanzo di Daria Martelli? La scelta del lessico nella narrazione è assolutamente trasparente nei confronti della donna, e traccia un protagonismo femminile a ogni livello, sia descrittivo, sia emotivo e sentimentale, come si vede riordinando il lessico e raggruppando i termini per ambiti semantici. Questo segno al femminile, tracciato con mano molto sicura, non pare però “di parte”, e anzi le immagini linguistiche create dall’autrice mostrano attenzione per le figure maschili, ed accortezza nel non banalizzarle.
Nel romanzo i due mondi compaiono ricomposti in una unità di relazioni. Ecco farsi avanti, in uno schizzo fatto di parole, “canticchiando, riposata ed euforica”, la capoinfermiera Bassetti, una “rossa lentigginosa con l’abbronzatura dai toni accesi”, nella sua divisa “bianca immacolata”. Poi irrompe, con una “pila di teli ripiegati” sugli avambracci, l’infermiera Natali, “tozza e goffa”, “svagata”. Sulla lettiga ecco una “donna di mezz’età”, la protagonista, che all’inizio è presentata in modo talmente sfumato da consentirci di farne a poco a poco la conoscenza linguistica per tutto l’arco del romanzo, mentre gli altri personaggi vengono subito delineati in modo definitivo. Particolarmente gustosa è la figura di Loretta, che si presenta “masticando gomma”, parla con un forte “accento lombardo” e “ciabatta per il corridoio”, ma poi ricompare nell’ingresso, pronta per uscire, e questa volta ha i “capelli scuri arricciati dalla permanente, voluminosi intorno al viso truccato” con “grossi segni neri e rossi”, è infilata in un “vestito rosso molto attillato”, che rivela la sua “figura tarchiata”, ha “scarpe scarlatte”, con i “tacchi alti”, che peggiorano la “linea a botticella delle gambe”, indossa un “persiano nero”.
Entra il dottor Valiani, “alto e massiccio, accigliato, il volto carnoso”. Compare in scena Walter, “laureato da pochi giorni”, “alto, snello, con l’impermeabile chiaro e il sorriso canzonatorio”, compare Lamberti, “di mezz’età, stempiato, alto e magro, il naso pronunciato.. la fronte alta … casual raffinato nel vestire”. Molto interessante è il personaggio del medico, “un uomo che sa ascoltare” e sa godere delle piccole cose. Infatti entra in scena passando lungo i giardini, tra “aiuole rose di salvia splendens e arbusti verdi e bianchi di aucuba”, “godendo dell’aria tiepida” e dell’estate. Un tipo d’uomo che si ritrova nella realtà, ma che è raro veder fissato nell’immagine del maschile che viene tradizionalmente mediata, e che tende a considerare “non virile” questa sensibilità.
Inutile dire come ognuna di queste espressioni sottenda ed evochi immagini interiorizzate da ognuno di noi, rimandi ad esperienze, a luoghi comuni, ad incontri e desideri, facendone derivare, come si diceva, uno spessore comunicativo che va oltre il significato immediato delle parole, ed è ciò che in realtà struttura il testo.
Questo romanzo di Daria Martelli stuzzica i lettori ponendo e riproponendo un problema interpretativo: delle tante narrate da voci diverse, ed a tratti intrecciate in plausibili momenti di “verità oggettiva”, qual è la vera storia di Fabrizia?
Una frase detta dal medico alla fine del romanzo sembra sollecitare a cercare il senso degli eventi narrati proprio nell’analisi delle parole che tessono il racconto: (Fabrizia) “mi aveva affidato una vita possibile, immaginata e rimpianta, non meno sua di quella che in realtà le era toccata: per viverla in qualche modo prima di morire, fingendola con le parole”. “Fingere con le parole”, dunque, ma “fingere” nel senso etimologico del termine, cioè “costruire”, “plasmare” come con la creta. Ed in realtà questo “fingere” con la materia linguistica, con cui tutti noi siamo costantemente in contatto e ben conosciamo, ma solo alcuni di noi sanno plasmare con maestria o con arte, è l’essenza stessa dell’opera d’arte.
Tre sono le versioni della vita di Fabrizia. La sorella Olga la racconta come una patetica figura di donna che, dopo tante vicissitudini e rinunce, isolandosi nella sua casa, finisce per “cedere sempre più al letto e al sonno”, dimentica di tutto, anche del cibo, lasciandosi morire. Ma questa non è che la verità di una sorella maggiore che, sentendosi responsabile di Fabrizia e delle sue scelte, pretendendo di proteggerla dalla vita filtrandone le esperienze, vede come fallimento totale lo svanire dei sogni.
Diversa è la Fabrizia raccontata da Lamberti, l’amante, nella persuasione che la donna, una volta distrutto il mito di Walter, giovanile ed infelice amore, abbia trovato finalmente la felicità, mediata dal matrimonio, quando, grazie alla sua paziente tenacia, “la realtà aveva vinto il sogno, come doveva avvenire: per poter vivere”. È la narrazione stessa tuttavia a smentire tale verità: la morte di Fabrizia, come epilogo del racconto, rovescia semanticamente l’immagine di felicità, proiettandola nel mondo delle illusioni del partner, il quale evidentemente non sa vedere la profonda inquietudine della compagna, abbagliato dall’entusiasmo dei propri desideri, del proprio progetto di vita.
Ma, in fine, è la stessa Fabrizia a raccontare di sé, e, stranamente, tra tutti i racconti il suo è quello che sembra dare di meno l’impressione di una aderenza alla realtà, che sembra presentarsi scopertamente come “finzione”. Così la protagonista presenta l’epilogo della sua vicenda: “Quella notte scrissi a lungo. Ero rasserenata. Quella era la mia professione, pensavo, mia, anche se la dovevo a Walter. Una professione fuori di casa, tra la gente, nel mondo, come piaceva a me.” Al fallimento dello spegnersi tra le pareti domestiche, visto come suo destino dalla sorella, all’appagamento dell’amore concesso da un uomo che voleva distruggere i suoi ricordi e i suoi sogni e racchiuderla in un luminoso appartamento con “i fiori sul terrazzo”, ipotizzato da Lamberti, essa oppone la soddisfazione derivata da una realizzazione professionale, che l’ha portata a rompere l’isolamento della casa antica e buia, odorosa di sofferenza.
Fabrizia in tale dimensione appare del tutto rasserenata, racconta non la sua frustrazione, ma la sua soddisfazione e, a conclusione del racconto, raccomanda alla umanissima figura di medico a cui ha affidato le sue parole: “Non dimenticherà, vero, dottore?”
Dove sta dunque la “verità” del romanzo? Se, come abbiamo detto, consideriamo ogni narrazione letteraria non tanto come una rappresentazione della realtà, quanto piuttosto come un modo per agire sulla realtà, trasformandola tramite il modellamento culturale, la verità non può essere che quella di Fabrizia, la protagonista, che esplicitamente chiede che non venga dimenticato ciò che ha detto, non certo quella di Olga, che raccomanda “dimentichi”, o di Lamberti, che racchiude le sue certezze in una lettera del notaio. Dunque, in termini di comunicazione, il messaggio del romanzo è questo: la realizzazione di una vita non è tanto nel fare, nell’ottenere, quanto nel conoscere se stessi e nel coltivare i propri desideri. Se le contingenze della vita distruggono quelli della protagonista, non è lei che hanno distrutto. Lei “è” la giornalista che ha sempre saputo di voler essere, indipendentemente dalle contingenze, perché quello era il suo progetto di vita. L’immagine profonda del suo essere donna, la vera realtà di Fabrizia, è negata a quanti, volendo decidere per lei chi essa sia, interpretano come fallimento le mille rinunce chieste dalla vita, o, al contrario, le sublimano come in un segreto rinunciatario piacere. Mi piace cogliere questo significato, tra tanti altri che pur ci sono in questo romanzo, perché mi pare un utile messaggio su cui riflettere.