Daria Martelli, Une jeune file rangée 1

A rigore non esiste la storia: soltanto la biografia.
Ralph W. Emerson, Saggi.

L’invito, che ho ricevuto più volte negli ultimi tempi, a testimoniare, con interventi o interviste,  sul mio impegno politico e culturale degli anni Settanta, mi fa misurare il cambiamento avvenuto nella società e nel costume, nei quali ormai i valori del femminismo sono penetrati profondamente, pur con vistose contraddizioni: se il patriarcato non è proprio morto, come invece ha annunciato trionfalmente Luisa Muraro, certo non gode più buona salute, almeno in una parte del Paese. Infatti sono passati gli anni necessari perché idee nuove, all’inizio affermate da un’avanguardia osteggiata – e, se composta da donne, inevitabilmente anche derisa – vengano capite dalla maggioranza – compresi gli intellettuali, gli scrittori e i giornalisti – che vede le cose solo quando tutti le dicono e solo allora perdona all’avanguardia la colpa di averle dette per prima.
Peraltro la distanza temporale induce anche a trarre bilanci esistenziali, che non sempre «le ragazze di ieri» vedono in attivo, se confrontano la propria condizione presente non solo con quella passata, ma anche con quella sperata. Quelle che pagarono il costo delle lotte femministe hanno ricominciato il proprio percorso esistenziale nei tempi nuovi molto più favorevoli alle donne, quando ormai erano nell’età in cui i giochi sono fatti: con un irrimediabile ritardo rispetto sia agli uomini coetanei, avvantaggiati da sempre, sia alle donne della generazione seguente, che hanno ricevuto tutti i vantaggi di quelle lotte e spesso nemmeno lo ammettono. La vita ha le sue improrogabili scadenze e può darsi che «le ragazze di ieri», se non hanno le grandi possibilità economiche che salvano sempre e in ogni caso,  si ritrovino in antiche condizioni tipicamente femminili e la loro nuova consapevolezza non faccia che acuire la loro insoddisfazione.
In un’intervista Luciana Castellina, parlando della propria generazione, ebbe a dire: «Avevamo orrore di essere donne».  Essere donne nel modo degradato e ridotto, a cui la cultura patriarcale costringeva. Per recuperare l’orgoglio di essere ciò che si è, il primo orgoglio senza il quale vivere è insopportabile, non c’è che la ribellione. Ed è questa ribellione solitaria che ricordo all’inizio della mia vita, quando il nuovo Movimento femminista era di là da venire e mi sentivo ripetere una frase, con la quale si voleva non solo biasimare, ma anche ridicolizzare: «Non fare la suffragetta». Più tardi incontrai i libri di Simone de Beauvoir, Virginia Woolf, Betty Friedan, grandi incontri, che mi diedero le lucide ragioni della mia ribellione e la sicurezza intellettuale ed emotiva. Il mio femminismo nacque sulle loro pagine.
Quando, all’inizio degli anni Settanta, in varie città d’Italia, incominciarono le manifestazioni femministe, ebbi subito la consapevolezza dell’eccezionale momento storico: incominciava una grande  rivoluzione culturale, che finalmente poteva cambiare il destino, da sempre immobile, delle donne. Se fosse fallita, tutto sarebbe ritornato uguale. Ora o mai più. La nostra generazione aveva il compito di non perdere un’irripetibile occasione.
Ma per me passare dal femminismo intellettuale all’impegno politico fu una scelta lacerante. Anch’io, come Simone de Beauvoir, ero une jeune file rangée, una ragazza perbene, approdata all’insegnamento, l’unica professione di fatto aperta alle donne. Tutto, l’educazione, l’ambiente, la professione,  mi vietava di  “espormi” nell’azione pubblica, tanto più schierandomi con tali compagne di lotta. Nell’immaginario collettivo, alimentato volonterosamente dai mass media,  le femministe erano le nuove streghe che, invece di mangiare i bambini come le loro antenate, bruciavano regolarmente i reggipetti, un hobby sconveniente, oltre che costoso, dato il prezzo non trascurabile di questo capo di biancheria intima. Gli epiteti più gentili che la piccola borghesia benpensante di provincia affibbiava loro erano «matte», «zingare», « puttane», parole che nel dialetto veneto acquistavano colore e violenza. E quello era il mio ambiente.
Tuttavia non esitai a troncare relazioni e ad affrontare critiche. Con la mia scelta perdevo certezze riposanti e false, ruoli rassicuranti e opprimenti, abitudini dolci e invischianti. Ma quello che davvero aveva importanza –  la libertà di esprimermi e la possibilità di realizzarmi – io, come tutte le donne, lo avevo perso da millenni. Poiché a Padova, dove abitavo, non c’erano ancora gruppi organizzati, mi rivolsi al femminismo romano, che sentii sempre affine per il suo carattere culturale, fantasioso e creativo. Quando nel 1973 nella capitale nacque la rivista Effe, l’aiutai a diffondersi nel Veneto e incominciai a collaborare. In un articolo pubblicato nel gennaio 1974 denunciavo il sessismo del linguaggio nei libri di testo delle scuole superiori, nelle quali insegnavo.
Intanto anche Padova era diventata un centro del Movimento e nel 1972 mi collegai con il primo gruppo sorto in città, Lotta femminista. La storia della mia militanza coincide con la storia del Movimento femminista padovano, caratterizzato dalla suddivisione e proliferazione di gruppi. Quando Lotta femminista si divise, passai nel Comitato per il salario al lavoro domestico. Anche nella mia militanza portavo i miei interessi, che erano soprattutto culturali, e il mio modo di esprimermi, che era quello della creazione letteraria e teatrale. Nel 1974 scrissi un testo, dal significativo titolo L’identità, per uno spettacolo teatrale, dato poi in varie piazze italiane sotto il nome del Comitato per il salario al lavoro domestico, che ne aveva curato l’allestimento2. Già nel 1973 cominciai a progettare un Centro di documentazione della donna (CDD), che contribuisse a diffondere la nuova originalissima cultura femminile e tenesse memoria della grande rivoluzione in atto; lo realizzai nel 1975 con un nuovo gruppo, che si era aggregato intorno a questo progetto3.
La partecipazione al Movimento fu un’esperienza straordinaria per intensità e tensione ideale: più mi allontano da quella fervida stagione più vedo quanto sia stata importante nell’evoluzione della mia personalità e della mia espressione creativa. Considero una fortuna averla fatta, mentre altre donne la perdevano. Vissi anch’io l’illusione della “sorellanza”, che era a fondamento del Movimento italiano come di quello americano, sebbene noi usassimo la parola “compagna” invece di “sister”. Fu un’utopia: era difficile riconoscere come sorelle donne tanto diverse per collocazione sociale, formazione culturale, casi di vita. Ma l’utopia è l’anima della storia. E l’idea di una solidarietà sororale che legava tutte le donne ci dava la forza per combattere la comune oppressione millenaria.
Fa parte di quell’esperienza anche la dimensione collettiva, in cui si fondevano le singole individualità. Il gruppo, se da un parte potenziava, dall’altra limitava. Per esempio, ricordo i documenti che scrivevo in uno stile non mio, dando forma a un magmatico pensiero mio solo in parte e che infine firmavo con una sigla comune. Una dimensione che sentivo estranea, abituata  com’ero a quella individuale, molto più libera. Ma il gruppo era il crogiolo, dove, per impreviste  reazioni e trasformazioni, nascevano le donne nuove4.


1Estratto da: Le ragazze di ieri, immagini e testimonianze del movimento femminista veneto, a cura di Anna Maria Zanetti, Venezia, Marsilio Editore, 2000. La pubblicazione è stata promossa dall’Associazione culturale regionale “Moderata Fonte”.
Il titolo dell’intervento richiama il primo volume dell’opera autobiografica di Simone de Beauvoir, Mémoires d’une jeune fille rangée (1958).

2Il testo de L’identità è pubblicato in D. Martelli, Teatro. In scena per far riflettere, Padova, Cleup, 2020, p. 449 sgg. Vedi  nella Parte prima del volume Cap. III,  § 3,  In piazza con il teatro, p. 35 sgg.

3Sul Centro di Documentazione della Donna (CDD) di Padova v. Anna Maria Zanetti, Una ferma utopia sta per fiorire. Le ragazze di ieri. Idee e vicende del movimento femminista nel Veneto degli anni Settanta, Marsilio, 1998, p. 150 sgg.  Nel testo del saggio e nelle note sono citata in più punti e in vari modi (Daria Martelli, Anna Cardano,  Maria Vittoria Arciero o semplicemente Maria Vittoria).

4Nella sezione fotografica, curata da Luccia Danesin, del volume Le ragazze di ieri è riprodotta una scena dell’azione teatrale di Daria Martelli, L’identità, rappresentata a Padova, Teatro Tenda di Prato della Valle, la sera del 6 marzo 1976.

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