LE STREGHE
Dramma,
Prefazione di Carlo Vallauri,
Introduzione dell’autrice,
Relazione di Fabrizio Rafanelli, componente della giuria del Premio Nazionale Vallecorsi per il teatro XXXI Edizione,
Nota di regia del regista Filippo Crispo, per la messinscena di Teatro Orazero in collaborazione con Venetoteatro, 1990,
Bozzetto di scena di Maurizio Berti,
Abano Terme PD, Piovan editore, 1990
(seconda edizione ampliata).
Introduzione dell’autrice a Le streghe di Daria Martelli, Abano Terme, Piovan Editore, 1990, SIAE.
Per il dramma ho tratto ispirazione e spunti dalle testimonianze rimaste dei processi per stregoneria, peraltro usando con libertà questa documentazione e scegliendo da vari verbali le situazioni e i passi più significativi, oltre ai nomi delle “streghe”.
La storia entra direttamente nel dramma attraverso i documenti, che sono parte integrante della vicenda e diventano essi stessi un personaggio – pur sotto nomi diversi, il parroco, l’Inquisitore, il banditore – il Potere, con un suo linguaggio, diverso da quello dei paesani. La predica del parroco dell’atto primo, l’ordinanza, la sentenza e il proclama dell’atto terzo sono ricalcati, con gli opportuni adattamenti, su passi di documenti storici, tra i quali il Malleus maleficarum (1486) di Heinrich Kramer Institor e Jacob Sprenger, che era il manuale degli inquisitori, e la bolla Summis desiderantes affectibus (1484), emessa da Papa Innocenzo VIII, che assunse le teorie demonologiche e segnò l’inizio ufficiale della caccia alle streghe da parte della Chiesa1. Ne sono mantenuti il linguaggio pedante e ampolloso, che esprime con immediatezza, oltre alla feroce ipocrisia del potere, la sua estraneità al mondo dei paesani e delle streghe: un linguaggio scritto e, in tempi di analfabetismo diffuso, la scrittura è un tremendo mezzo di repressione, infatti solo ciò che è scritto ha consistenza e scrive solo chi ha il potere.
Nel dramma vado necessariamente oltre i documenti. Data l’enorme dimensione che ebbe il fenomeno della persecuzione2, è sembrato significativo, piuttosto che ricostruire un singolo fatto storico, rappresentare una vicenda che di quel fenomeno fosse una sintesi ideale e fantastica, e ricreasse – poeticamente, come solo ormai può essere ricreata – la «verità» delle streghe, occultata nei documenti, scritti tutti dai persecutori: una vicenda che – a teatro, dominio per eccellenza della metafora, dove la realtà sempre si trasforma – acquistasse valenza di mito e di simbolo.
L’ambientazione in Valcamonica nel 1518 fa riferimento alle persecuzioni di massa che vi si ebbero intorno a quell’anno: in particolare è stato tenuto presente il processo, i cui atti sono trascritti nei Diarii del nobile veneziano Marin Sanudo, di una guaritrice, Benvegnuda detta la Pincinella, di Nave (Brescia), arsa sul rogo3. Occorre ricordare che molte donne processate come streghe erano guaritrici e ostetriche; la persecuzione rappresentò anche un modo di interdire alle donne l’esercizio della medicina, che esse praticavano da secoli, e di escluderle dalla nuova classe medica4.
Peraltro alla strega storica, quale emerge da questo e da analoghi processi5, è stata sovrapposta una figura che è presente da sempre nella civiltà contadina e in certe zone è testimoniata fino a tempi recenti: la guaritrice, che cura i compaesani con le erbe e con le pratiche magiche, e deve le sue conoscenze non al diavolo, ma ad altre donne che gliele hanno trasmesse, da una generazione all’altra.
Gli elementi tradizionalmente connessi con la figura della strega sono stati riletti alla luce delle esperienze del nostro tempo.
Il “diavolo” altro non è che la metafora delle risorse interiori, capacità che si attivano per una liberazione psichica, il principio della forza e del potere della donna, pur in una società repressiva patriarcale. Nella terza scena del primo atto la nonna dice a Caterina, riferendosi alla Zena: “Se non avesse l’aiuto del diavolo, sarebbe anche lei una povera donna come me e come tua madre”.
La “magia” è fitoterapia, pranoterapia, telepatia; è l’esercizio di facoltà paranormali perdute, che erano propri dell’essere umano e che alcuni individui conservano; è una medicina empirica – fondata sullo studio della materia e diversa da quella dogmatica accademica – che comprende anche tecniche di liberazione psichica, volte ad attingere le risorse profonde dell’io: un sapere alternativo a quello ufficiale e comprensivo di tutto quanto è altro da un razionalismo riduttivo.
Il “volo”, con cui le streghe si spostavano, è l’effetto provocato dalle piante allucinogene, che esse usavano.
La formula magica serve per concentrarsi e l’amuleto per darsi coraggio, mezzi per catalizzare le energie psichiche, come spiega la psicologia oggi.
Il sabba è un convegno festoso e liberatorio di donne che evadono per qualche ora dalla repressione quotidiana, facendosi forza l’una con l’altra, una specie di happening o festa stagionale, senza l’intervento del diavolo. Possono aiutare a capire il sabba della leggenda certe manifestazioni odierne ispirate alla cultura hippy e alla sua esigenza di “stare insieme”, come, per esempio, il Festival di Woodstock, che si svolse a Bethel, negli Stati Uniti d’America, dal 15 al 18 agosto del 1969, e vide la partecipazione di un’enorme moltitudine di giovani.
All’inizio del dramma, in primo piano è Caterina, un’adolescente scontrosa e ribelle, che cerca confusamente un modello di identificazione diverso da quello offertole dalle donne della sua famiglia. Spinta dalla sua inquietudine, si reca dalle streghe nel bosco, luogo emblematico d’incontro con la natura e di evasione dalla società repressiva e dalla coercitiva morale religiosa.
Qui fa esperienza di un modo diverso di essere donna, fuori del tradizionale ruolo femminile: il rifiuto di questo diviene esplicito nella scena del sogno. Infatti storicamente le streghe furono per lo più donne “sole”, non integrate nella famiglia, irregolari e come tali sospette al Potere e considerate socialmente pericolose.
Caterina riceve da Zena un aiuto psicologico. La vecchia, saggia e comprensiva, con una specie di intuitiva psicoterapia, le infonde fiducia nelle proprie capacità, le insegna a cercare se stessa, oltre la repressione familiare, e le indica dei modi per rafforzare la psiche in particolari circostanze.
Questo personaggio, pur muovendosi su uno sfondo storico, assume su di sé gli elementi della leggenda. Sulla scena deve avere un’ambiguità visiva e suggerire alternativamente la realtà storica, da una parte, e la leggenda e il fantastico, dall’altra. Appare sia come la megera della tradizione sia come la donna saggia e benefica, dotata di una sua bellezza di natura spirituale, che aiuta anche con il tono suggestivo della voce, suadente e rassicurante. Quando mostra le erbe, non fa solo una lezione di botanica, ma apre un affascinante mondo di conoscenza. La formula magica agisce anche perché è pronunciata e consegnata a Caterina in un certo modo. La “magia” è affidata alla parola e alla suggestione della voce, nella quale i toni di una dolcezza suasiva si alternano a quelli di una profondità inquietante. E la scena teatrale è il luogo deputato anche per una comunicazione paraverbale e metaverbale.
Zena e le sue compagne, che si incontrano per scambiarsi informazioni e ricette di medicamenti, curano con le erbe, ma anche con la parola e con i poteri della mente, in una concezione dell’essere umano come unità psicofisica.
La necessaria trasmissione dei poteri le lega alle generazioni passate e a quelle future, in una segreta continuità di sapere femminile, che è una forma di sopravvivenza, attraverso i secoli e i roghi.
La Festa di San Giovanni, che attendono e vagheggiano – il sabba della leggenda – è un’esperienza collettiva liberatoria, che muta chi vi partecipa: in sintonia con la natura, si raggiunge una comunione emotiva profonda tra gli individui, addirittura medianica. Soprattutto si libera la vita istintuale, si recupera una capacità di “giocare” e di attingere un piacere fine a se stesso, combattuta e soffocata dalla tradizione religiosa: “aver buon tempo” o “darsi agli spassi” – come si legge nelle testimonianze storiche a questo proposito – è trasgressivo e peccaminoso in una società repressiva.
Nei primi decenni del Cinquecento nelle valli alpine si preparavano sommosse di contadini. Nei processi molti testimoni riferiscono di incontri casuali con gente che si riunisce di notte, non per il sabba, come intendono gli Inquisitori, ma evidentemente per congiurare, ed è probabile che le streghe coprissero questi convegni, avallando la credenza del “gioco della Signora”, riunioni notturne in onore di una divinità femminile: un antico mito che forse è all’origine della stregoneria e che solo in epoca relativamente tarda si contaminò con gli elementi della demonologia ufficiale6. Di questo coinvolgimento politico delle streghe7 nel mio dramma si sente l’eco nella conversazione della prima scena del secondo atto. Su questa ipotesi si fonda anche la consapevolezza attribuita a Zena, che, dopo la condanna, accusa i compaesani di averla tradita e così di essere venuti meno alla solidarietà tra poveri. Le sue parole riecheggiano quelle rivolte da un’imputata al servitore del comune che l’ha torturata e registrate nel verbale di un processo (1676): “I paesan an fan torto alla gient paesana. Benché la giustizia fuss in pè de Dio, ma l’è in pè del diavolo; et tanti eran smarzit [marciti] anche lor per far tort alla povera gente.”8 Parole che, oltrepassando gli interlocutori presenti e la loro acritica soggezione all’autorità, sembrano rivolgersi veramente a quelli di tempi di là da venire.
Il dramma è caratterizzato da una dimensione corale. Intorno a Caterina e alle streghe è una piccola comunità contadina, tutti legati gli uni agli altri da pettegolezzi, egoismi, inimicizie, con i loro problemi di sopravvivenza quotidiana, le loro rassegnazioni e i loro conformismi. Le donne sono le più oppresse – oppresse anche dagli uomini oppressi – abbrutite dalla fatica, sfinite dalle gravidanze incessanti, alienate dai condizionamenti millenari, marchiate dai pregiudizi più autorevoli, quelli della Chiesa. Su questo sfondo di miseria e di oppressione – scenicamente dovrebbe essere reso dalla prevalenza di colori bruni terrosi – è comprensibile come la “stregoneria” dia forma, per alcune donne, al sentimento di una propria diversità e a un sogno di libertà individuale.
Sul paese gravano le memorie incancellabili di un passato che si ripete fatalmente, il processo di Beatrice. Quel rogo lontano – avvenimento che appartiene a un altro dramma, ma è presente nella memoria di tutti come un punto di costante riferimento interiore – potrebbe essere visualizzato all’inizio come una proiezione collettiva.
Il linguaggio del Potere si alterna a quello, semplice e usuale, dei paesani e all’altro, denso e lirico, delle streghe. Sono tre livelli linguistici, che corrispondono ai tre luoghi dell’azione scenica: il luogo del Potere, la Chiesa e la Casa della Comunità; quello della vita quotidiana, la casa di Caterina, che si continua nel sagrato dominato dalla chiesa, il centro della vita sociale, e nelle vie del paese; quello di una cultura alternativa, il bosco. Il rogo è fuori della scena, e riverbera su di essa il bagliore delle sue fiamme9.
I paesani, anche se appena caratterizzati individualmente, non sono solo un coro che informa e commenta, ma hanno una parte decisiva nella vicenda. Con le guaritrici, dalle quali si fanno curare, hanno un rapporto ambivalente, di fiducia nel loro sapere, ma anche di timore del potere che questo sapere conferisce e di diffidenza per la loro condizione irregolare: una diffidenza che peraltro non porterebbe alla persecuzione.
La persecuzione organizzata irrompe nella vita quotidiana del paese nel terzo atto, e a questo punto l’azione scenica assume la forma del processo e il suo intrinseco carattere drammatico.
Quando giunge l’Inquisitore, viene istruito il processo e il tribunale pubblica i suoi ordini – ordini che, rivolti a persone indeterminate, sono formalità, ma creano un clima di apprensione – allora scattano immediatamente meccanismi inconsci: ci si eccita all’idea di avere qualcosa di importante da dire e di essere per una volta protagonisti, la garanzia di segretezza spinge alla denuncia, incoraggiandosi l’un l’altro si sfogano risentimenti e desideri di vendetta, si subisce il fascino tremendo del Potere, al quale si chiede di dimostrare atrocemente di essere tale.
Così i paesani portano i loro sospetti al tribunale, che li assume come prove, li ridice e dicendoli li carica di autorità e di certezza agli occhi degli stessi testimoni. Dopo la cattura e l’interrogatorio delle streghe, le autorità presentano una loro immagine ormai deformata, secondo gli schemi ufficiali di interpretazione: hanno avuto rapporti sessuali con il diavolo. È questo che contava per il tribunale e che tutte dovevano confessare, più dei malefizi, che invece erano temuti dalla gente.
Solo a questo punto il paese prova orrore e sente definitivamente estranee queste donne.
Gli unici personaggi lucidamente consapevoli della violenza psichica, oltre che fisica, esercitata in questo modo sono l’Inquisitore, che ne teorizza la necessità in una concezione mistica del Potere, e Zena, che tenta una forma di resistenza attraverso l’ironia.
Invece la giovane Caterina da questa violenza è annientata. In lei realtà, immaginazione e sogno finiscono con il confondersi. Le sue parole riecheggiano quelle di alcune dichiarazioni rese in processi storici: “Io sono accusata di andare alla stregheria, ma non è vero, ammenocché io vi vada in sogno.”10 “Non so d’averlo fatto. A meno che io non fossi stata onta da esse e che mi avesse parso come un sogno: perché mi ha parso di trovarme in compagnia di putte e di ridere e di ballare […] Sì, ma tutto mi sembra, come ho detto, un sogno.”11
Infine vuole compiacere quel potere che la schiaccia, andando contro se stessa, situazione che si rileva nei documenti dei processi, infatti “un rapporto tanto diseguale non può non agire come seduzione” (Luisa Muraro). Sulla scena la posizione reciproca della ragazza e dell’Inquisitore dovrebbe suggerire questo rapporto implicitamente sadomasochistico.
Nel diavolo che immagina, giovane, bello e gentile, e nel romantico ballo che descrive, Caterina esprime fantasticamente la sua sessualità che si sta svegliando, come d’altra parte il sapere e il potere femminili che l’avevano affascinata nelle streghe erano una forma di sessualità sublimata. Silvio, il pretendente decisamente respinto, non rappresenta ai suoi occhi che il matrimonio e l’adeguamento all’aborrito destino comune a tutte le donne.
La dinamica della persecuzione è vista alla luce della sociologia. La persecuzione è promossa e organizzata dalla Chiesa e dallo Stato, ma tutti i paesani finiscono con il collaborare con l’Inquisitore e si coalizzano contro queste donne che sentono “diverse”. Infatti in tutte le società, in ogni epoca, una violenza collettiva, nata dall’insicurezza, si scatena contro quello che di volta in volta viene percepito come diverso e quindi estraneo e nemico: la strega, ma anche l’ebreo o il nero o lo straniero portatore di un’altra cultura; la differenza, percepita come pericolosa, viene respinta. La strega è simbolo di tutti i “diversi” della storia e la “caccia alle streghe” è metafora di una persecuzione ricorrente nella società.
Nel dramma il prato dove si compiono le esecuzioni è “fuori del paese”. Questa collocazione, che è nella coscienza prima di essere nello spazio, è la metafora di un’espulsione di alcuni individui, designati a essere capri espiatori di tutte le colpe e di tutti i mali, fuori dalla comunità, e insieme è la metafora di un’espulsione da se stessi del male e della propria parte di responsabilità morale.
Su quel prato si compie il rito di cui parla tra sé e sé l’Inquisitore, nelle quarta scena del terzo atto, un rito in fondo rassicurante per tutti: “ne sentite il bisogno”, dice a questo proposito. È l’oscuro bisogno di avere dal Potere una spettacolare prova di forza, a garanzia di ordine, e nello stesso tempo di caricare alcuni individui di tutte le colpe, espiandole in un rituale solenne.
La scelta dell’argomento è dovuta anche alla sua attualità.
La rivalutazione della figura della strega è il risultato della riscoperta, avviata negli anni Settanta con i nuovi gender studies e sviluppatasi nei decenni seguenti, di una storia delle donne e della loro presenza attiva nelle società del passato. I versi di Emily Dickinson, che ho scelto come epigrafe del dramma e sono recitati fuori scena alla fine, dicono una capacità femminile di resistenza e sopravvivenza quotidiana, attraverso mezzi e modi propri delle donne: the witchcraft , le loro arti magiche, sono una forza interiore, alla quale hanno attinto per poter agire ed esprimersi in millenni di discriminazione e di misoginia.
Inoltre questa figura storica può richiamare tematiche proprie della cultura del nostro tempo, la liberazione interiore, il recupero della corporeità e di una diversa socialità. E non meno può rappresentare valori che sembrano ritornare al giorno d’oggi, un trepido riaccostarsi alla natura, per delusione del “progresso”, quale è stato inteso, e per sfiducia nei prodotti industriali.
1 Le citazioni di documenti storici sono tratte dalle opere seguenti: H. Institor – J. Sprenger, Il martello delle streghe, Trad. di F. Buia, E. Caetani, R. Castelli, V. La Via, F. Mori, E. Perrella, Venezia, Marsilio, 1977; Marcello Craveri, Sante e streghe. Biografie e documenti dal XVI al XVII secolo, Milano, Feltrinelli, 1980; Luisa Muraro, La signora del gioco. Episodi della caccia alle streghe, Milano, Feltrinelli, 1976; Eva Figes, Il posto delle donne nella società degli uomini, Trad. di R. Petrillo, Milano, Feltrinelli, 1978.
2 Sulla persecuzione a Venezia, durante la Repubblica Serenissima, si veda D. Martelli, Polifonie. Le donne a Venezia nell’età di Moderata Fonte (seconda metà del secolo XVI), op. citata, capitolo XVII, 2, p. 384 sgg., “Le pratiche magiche delle donne”, e 3, p. 387 sgg., “I processi contro le streghe”.
Il numero delle donne processate come streghe non può esser calcolato con esattezza, perché gli atti di migliaia di processi furono intenzionalmente distrutti per non farli cadere in mano agli avversari della Chiesa, alimentando l’anticlericalismo. Il numero delle vittime fu verosimilmente nell’ordine delle migliaia. Secondo le stime più attendibili, in tutta Europa ci furono circa 110.000 processi, più della metà dei quali – tra 40.000 e 60.000 – si conclusero con la condanna a morte. La caccia alle streghe fu paragonata ai genocidi avvenuti in varie epoche nella storia. Occorre considerare che nella persecuzione erano coinvolte in qualche modo non solo le donne accusate, ma tutta la loro comunità, familiari, parenti, amici, testimoni, perciò la caccia alle streghe sconvolse la vita di milioni di persone.
3Il processo è studiato da Luisa Muraro nel saggio La signora del gioco, op. citata, pp.159-172.
4 “L’alleanza tra Chiesa, Stato e professione medica raggiunse la sua piena fioritura durante i processi delle streghe. Il medico era l’esperto che doveva dare l’impronta scientifica a tutto il procedimento.” Barbara Ehrenreich – Deirdre English, Le streghe siamo noi. Il ruolo della medicina nella repressione della donna. Prefazione di Luciana Percovich, Roma, Nuovi Editori, 1980.
5 Un altro caso di una guaritrice e levatrice processata come strega è, per esempio, quello di Gostanza: il processo, avvenuto nel 1594 nel Granducato di Toscana, è studiato da Franco Cardini nel saggio Gostanza, la strega di San Miniato, Bari, Laterza,1989. Sulla documentazione di questo saggio e degli atti processuali si fonda il film Gostanza da Lubbiano, realizzato nel 2000 con la regia di Paolo Benvenuti.
6 Luisa Muraro, op. cit.
7 B. Ehrenreich – D. English, op. cit. .
8 Gaudenzio Olgiati, Lo sterminio delle streghe nella Valle Poschiavina, Tip. Menghini, Poschiavo (Svizzera), 1979, p. 139. (opera diffusa in internet). Luisa Muraro, op. cit., p. 183.
9 L’elaborata scenografia per la messinscena di Teatro Orazero, ideata dal regista Filippo Crispo e dallo scenografo Maurizio Berti, distingue visivamente i luoghi dell’azione con una struttura lignea: a sinistra in alto la casa di Caterina, la famiglia, primo nucleo sociale; a destra in alto la Chiesa e la Casa della Comunità, il potere, l’ordine costituito; sotto il bosco, i diversi, una cultura alternativa; davanti, il sagrato e le vie, il popolo e gli incontri. Vedi Appendice in D. Martelli, Le streghe, op. citata. Vedi l’immagine di copertina del volume di D. Martelli, Teatro. In scena per far riflettere, Cleup, 2020
10 M. Craveri, op. cit., p. 130, processo per stregoneria, Biella, 6 febbraio 1470, dichiarazione di Giovanna Monduro.
11 M. Craveri, op. cit., p. 269, processo per stregoneria, Nogaredo (Trento), 20 dicembre 1646, interrogatorio di Benvenuta Gratiadei di 17 anni.