LE VITE DI FABRIZIA

Romanzo

Milano, Edizioni La Vita Felice, 1997

In copertina:

Acquerello di Alessandra Pucci (1997)

Il libro è dedicato alla memoria di Angela Gorini

Ida Boni,
Intervista, “Daria Martelli. Invenzione e impegno”, Galatea. European magazine, a. VII, n. 11, novembre 1998.

[…] Per arrivare infine all’ultima prova, Le vite di Fabrizia, un romanzo edito da La Vita Felice e da pochi mesi in libreria, oggetto a tutt’oggi di dibattiti e presentazioni. L’immagine allora, questa di Daria Martelli, di una donna del tutto risolta, nel lavoro, nell’attività creativa, nei numerosi impegni? Sì, certo… anche se sembra di poter cogliere nelle sue pagine, al di là dell’esercizio dell’ironia e di una cultura vera e profonda – che in niente appesantisce ma anzi arricchisce la pagina – il senso di una ferita, di uno scacco più generazionale che individuale. Quell’essersi dibattute, tipico di tutte le donne, all’interno di uno svantaggio storico almeno per il momento incolmabile e di quella precisa trappola rappresentata dall’educazione, dalla famiglia, dai doveri imposti, dal mito dell’“obbedienza”, una virtù da sempre considerata al femminile: un insieme di elementi ben presenti nel mondo fantastico di Daria Martelli. Che ancora una volta si propone come narratrice di vena e utilizza, ne Le vite di Fabrizia, la tecnica del thriller, disegnando l’immagine di una donna che, sopraffatta e quasi annullata dalla realtà, riesce, sino allo scacco definitivo, a realizzare se stessa attraverso il sogno e l’invenzione.

D. – Chi perde la sua vita è dell’82 e credo che rappresenti il suo esordio in campo narrativo. Ma prima che cosa c’era stato? Nel senso del “pensare” alla scrittura, di una preparazione all’esercizio e anche alla fatica dello scrivere.

R. – “Se prima dell’82 avevo pubblicato soltanto articoli, questo non significa che io abbia incominciato a scrivere in modo creativo solo a partire da quel periodo. Il bisogno di esprimersi di solito si manifesta per tempo e affonda le radici nelle esperienze dell’infanzia. Mi sembra, a ripensarci, di aver scritto da sempre, sin da bambina: storie romanzesche, racconti, drammi… Anche se poi, diventata adulta, ho dovuto dare per molti anni la precedenza a lavori diversi da quello – tra tutti certo il più impegnativo – della scrittura: i miei scritti restavano così non finiti o non rifiniti, per mancanza di tempo. Scrivere – dedicare energie, attenzione e tanto tempo alla scrittura creativa – è un lusso. E quando uno, o ancor più una, quel lusso se lo prende pur non potendo permetterselo – per condizioni economiche o familiari – accade che paghi un prezzo molto alto, fatto anche di continui sensi di colpa. Il bisogno di scrivere ha insomma coinciso per me con un bisogno di significato; in quanto la parola scritta, interpretando la realtà e contribuendo a renderla intelligibile, tende a darle un ordine, un senso, anche quando afferma che senso non ha. La scrittura è in sé un mezzo di conoscenza, di comprensione. Per questo mi sembra di potermi riconoscere in Suor Teodora, uno dei personaggi del Cavaliere inesistente di Calvino, che ci viene mostrata in una cella, nell’atto di scrivere, e che, a un certo punto rivela di essere la guerriera Bradamante: di essere insomma un’unica persona, a un tempo attiva e contemplativa, che corre per il mondo, tra duelli e amori, per poi ritirarsi in convento a scrivere i fatti che le sono occorsi, cercando di «capirli».”

D. – Nel considerare, oggi, quello che lei ha realizzato mi sembra di poter ritrovare nelle sue pagine una grande coerenza di temi. E già in quel suo primo titolo, Chi perde la sua vita, e in quella vicenda era presente il senso della vita come perdita.

R. – “Tra le innumerevoli storie a cui potrei ispirarmi scelgo ogni volta le più significative, quelle che ritengo capaci di dire qualcosa sulla vita, sull’animo e sulla condizione umana. Vicende che in qualche modo riguardano ogni lettore (de te fabula narratur, ha scritto Orazio). Quanto ai temi della mia narrativa, uno, tra gli altri, è proprio la vita, per se stessa: l’unica che abbiamo su questa terra e che, per una tragica dispersione di noi stessi e dei nostri giorni, quasi mai riusciamo a vivere pienamente.”

D. – Nei suoi libri questa “perdita” appare soprattutto sul versante delle vite femminili. In Valeria, la repressa e depressa protagonista di Chi perde la sua vita, che solo tardi troverà una imprevista via di liberazione, oppure nei personaggi di alcuni racconti, costruiti sulla malinconia e sul rimpianto. L’impossibilità di scegliere la propria esistenza è anche il dramma di Fabrizia, la protagonista del suo ultimo romanzo.

R. – “Fino a tempi molto recenti le donne hanno avuto ben poche possibilità di far fruttare i talenti che possedevano e sono rimaste spesso incatenate a tutta una serie di doveri, da intendere sempre verso gli altri e mai verso se stesse. In situazioni difficili, per scegliere secondo le proprie esigenze e aspirazioni, sarebbe stata necessaria una dose di durezza, in qualche caso di crudeltà, di cui le donne non sono state capaci. Ho detto “fino a qualche tempo fa”, perché il grande cambiamento della condizione femminile, provocato dal femminismo degli anni settanta, ha approfondito, come mai era avvenuto prima, il solco tra le generazioni. Essere nate con qualche decennio d’anticipo, se non si era privilegiate per censo e ambiente, ha portato a subire irrimediabili svantaggi, che le più giovani oggi non conoscono. Per questo affiora nei miei romanzi e racconti un passato prossimo ben vivo nella memoria (e nelle cicatrici) di tante di noi.”

D. – Sono questi, credo, i presupposti che danno alle sue pagine un senso di emarginazione e di scacco, una grande pietà per le esistenze non vissute, per le donne “ombra”, prive di una vera voce. L’unica realizzazione possibile resta allora quella che conduce al mondo della fantasia o, nel migliore dei casi, dell’espressione artistica?

R. – “Per tutti, uomini e donne, la fantasia può rappresentare un’evasione e l’espressione artistica una forma di salvezza: è stato spesso così. È vero anche che quelli che scelgo e racconto costituiscono dei casi a sé, che, per il fatto stesso di essere stati scelti, finiscono con l’assumere un valore oltre che metaforico anche esemplare.”

D. – Lei ha praticato il racconto come un jeu à côté rispetto al romanzo. La raccolta Il gioco dei tradimenti è dell’87, quando il racconto, a differenza di oggi, stentava a trovare un pubblico. Che cosa l’attirava in quel genere di narrativa?

R. – “Il racconto è un mezzo per illuminare, a sprazzi, una realtà complessa, contraddittoria e riuscire a osservarla meglio. Questo genere, a torto considerato minore, è diverso dal romanzo, non solo sul versante della tecnica, ma anche per il modo, meno totalizzante e sistematico, di guardare le cose. Mi permette inoltre, per la concentrazione che richiede, di mettere a fuoco certi temi che posso poi sviluppare in opere di più ampio respiro.”

D. – Con Le streghe, un dramma sulla stregoneria ambientato nel Cinquecento, lei ha vinto un prestigioso premio, il Vallecorsi. Da cosa è nata, per lei, la necessità di provarsi con un modo espressivo ancora diverso?

R. – “Un certo teatro, quello che viene definito “di parola”, è contiguo al romanzo, quando questo non sia saggistico o diaristico o lirico. Molti romanzieri sono stati anche drammaturghi, valga per tutti l’esempio di Pirandello. Il carattere fondamentale di questo tipo di romanzo è la drammatizzazione, una «teatralità» che è tutt’uno con la «visibilità»: uno dei valori letterari che Calvino ha indicato nelle Lezioni americane. Quanto a me, amo il dialogo, che considero l’essenza del teatro e uso molto anche nei romanzi: perché è in esso che i personaggi si rivelano e caratterizzano nel modo migliore (loquere ut te videam, parla perché possa vederti). Questo senza che ci sia bisogno dell’intervento dell’autore a spiegare e analizzare. Devo peraltro aggiungere che il romanzo permette, più del teatro, di rendere il senso del tempo e di giocare con lo stile.”

D. – Solgenitzin credeva nei “nodi”, tipici della Storia e della vita di ciascuno. Lei accenna invece ai “bivi”. Ed è certo che l’incontro con Moderata Fonte abbia rappresentato, nel suo percorso, un momento fondamentale. Quando e come è avvenuto?

R. – “È avvenuto per caso, ma che cosa, a ben guardare, non accade per caso? Conoscevo la scrittrice fin dal 1978, quando, dopo quattro secoli di dimenticanza, era stata riscoperta nell’ambito del movimento femminista e il suo dialogo Il merito delle donne era stato pubblicato, incompleto, dalla casa editrice “Rivolta femminile”, in uno di quei libretti verdi ben noti a chi ha vissuto quel clima di cultura. Una pubblicazione che suscitò grande eco, e che mi interessò molto, anche se, allora, non pensavo di dovermene occupare di persona. È stata l’Associazione costituitasi in Veneto nel 1989, che appunto a Moderata Fonte volle intitolarsi – come simbolo di una cultura delle donne cancellata o misconosciuta e dunque tutta da riscoprire e valorizzare – a chiedermi di fare l’adattamento teatrale de Il merito delle donne, un testo nato per la lettura e non per la recitazione.”

D. – Quell’incontro ha determinato, oltre all’adattamento teatrale, una ricerca storica sulla vita dell’autrice e una pièce originale – Il giardino veneziano – in cui viene messa in scena la stessa Modesta (il vero nome di Moderata Fonte), colta nel suo ultimo giorno di vita. Quali sono stati i sentimenti che l’hanno mossa in quel suo lavoro?

R. – “Mi ritrovai ad essere affascinata dalla figura di donna e scrittrice che emergeva dai documenti e dai vari scritti. Ero anche colpita da certe coincidenze che coinvolgevano le nostre vite, pur così diverse e lontane nel tempo l’una dall’altra. Ho così provato per il personaggio una sorta di «simpatia», nel senso etimologico della parola: per il suo impegno culturale e creativo, per l’ansia di finire quel suo scritto nell’imminenza del parto – un evento allora pericoloso, che la portò a morire a soli trentasette anni – per quel desiderio di risolversi e sopravvivere nell’opera.”

D. – Il titolo della pièce, Il giardino veneziano, richiama il bellissimo giardino sul Canal Grande in cui, ne Il merito delle donne, si incontrano le sette gentildonne veneziane per “liberamente” conversare intorno alla condizione femminile.

R. – “Nella mia pièce il «giardino» diventa metafora di quella creatività e libertà intellettuale che la protagonista, nonostante le difficoltà, era riuscita a difendere. Difficoltà, nel Cinquecento, tipiche di Venezia come di ogni altro luogo: una testimonianza di quel periodo suona così: «oggidì in questa città non si vuol vedere donna virtuosa in altro che nel governo di casa».”

D. – Non si potrebbe avvicinare la metafora del “giardino” a quella della “stanza tutta per sé” della Woolf? Un’immagine che ha arricchito la fantasia e l’impegno di tante donne del secondo Novecento.

R. – “Il «giardino» e la «stanza» sono luoghi reali e insieme mentali, dove le donne sono riuscite, nei secoli della discriminazione e dell’oppressione, a salvare la loro anima. E dove ancora possono salvarla, facendo riaffiorare risorse spirituali e intellettuali spesso insospettate.”

D. – Le vite di Fabrizia, tanto godibile e scorrevole per quanto riguarda la scrittura, si presenta come un romanzo strutturato secondo una forma complessa, sulla base di quattro parti che si sovrappongono e qualche volta si intersecano tra di loro. Mi sembra di poter cogliere, in lei, quasi un rifiuto nei confronti del romanzo tradizionale, un ritorno alle schegge di esperienza che già avevano costituito Il gioco dei tradimenti.

R. – “Non credo nel romanzo come narrazione oggettiva di un autore che sta fuori della scena, una specie di divinità che sa tutto. Né voglio illudere il lettore sul fatto che il romanzo possa essere un pezzo di vita (tranche de vie), una finestra sulla realtà. Il romanzo è narrazione della vita, vale a dire un’interpretazione soggettiva, che dichiaro come tale, mettendo anch’essa nel gioco della vicenda narrata. Ne Le vite di Fabrizia ci sono quattro io narranti e quattro racconti, l’uno dentro l’altro, con una struttura definita da Paolo Ruffilli «a scatole cinesi»: la storia si sviluppa attraverso e oltre i singoli racconti. Anche Pirandello era solito giocare con i vari piani della realtà. E Magritte, sotto la raffigurazione di una pipa, aveva posto una scritta che ammoniva: “Ceci n’est pas une pipe”. È dunque il dichiarare la narrazione come tale a determinare una struttura non lineare, lontana da quella del romanzo a cui la tradizione ci ha abituato: quella che mostra invece ogni storia con un inizio, uno sviluppo e una fine, come di fatto non avviene. È la struttura non lineare a rendere l’aspetto contraddittorio e la «molteplicità» della vita (altro concetto caro al Calvino critico), pur conservando al romanzo il suo carattere di creazione organica e complessa, di mondo strutturato, con uno sviluppo sul piano dell’azione e del tempo: caratteri che lo distinguono da una raccolta di racconti.”

D. – Il dottor Braschi, il medico, che ne Le vite di Fabrizia viene rappresentato un po’ al margine della narrazione, risulta però importante, in qualità di “colui che ascolta”. È legittimo costruire un parallelo tra il dottor Braschi e l’autrice, lei stessa, che certo si è raccontata a lungo le “storie” de Le vite di Fabrizia, prima di scriverle?

R. – “Il medico che al Pronto Soccorso ascolta i racconti delle tre persone capitate lì, l’una dopo l’altra, in una notte d’agosto, appartiene alla cornice del romanzo, anche se trae il proprio significato dal fatto di dare unità all’insieme e rappresentare, esteriormente, il legame fra i tre racconti, che hanno tra loro corrispondenze profonde e tematiche. Esprime la coscienza narrativa, là dove si riflettono le varie parti di cui si compone il testo. In questo senso è la controfigura (o la «persona», nel senso latino di «maschera») dell’autrice e, in generale, di ogni scrittore, che ascolta le storie del mondo con una certa disposizione d’animo, quasi di pietas. Quella notte, dice il medico, Fabrizia è il suo «prossimo» e lui è il «prossimo» di Fabrizia: con tutto il significato religioso, morale, culturale di cui può caricarsi questa parola.”

D. – Mi sembra che, tra i suoi critici, nessuno abbia notato il suo senso dell’umorismo, né la sua cultura così ben inserita e quasi mimetizzata all’interno del racconto, e neppure le sue riflessioni sul valore della scrittura. “La parola scritta – ha annotato (a pagina 76) – serviva anche a questo: essere sopra la realtà e non subirla. Un’arma per la vita […], un’arma da non deporre mai, a qualsiasi costo.”

R. – “Non sono una scrittrice umoristica, anche se l’umorismo, che è presente perfino nell’Amleto, non è in sé inconciliabile, secondo il titolo del saggio di Unamuno, con il «sentimento tragico» dell’esistenza. Nelle mie opere l’umorismo deriva dall’ispirazione realistica: è la vita stessa ad essere tragicomica. Quanto alla scrittura, credo che la sua pratica segni profondamente la persona che scrive: per questo non poteva essere soltanto «detta», come un particolare insignificante. I diversi tipi di scrittura sono, al tempo stesso, modi diversi di essere.”

D. – Ci sono, nel romanzo, anche quei momenti di amore, un amore tardivo, tra Renzo e Fabrizia, e il presentimento di una possibile felicità. E c’è la rassegnata constatazione (a pagina 159), che “l’amore è per i giovani, per le loro vite ancora fluide”. Anche se la realtà era riuscita a vincere, per un momento, sulle forze del sogno, non c’è stata dunque mai, per Fabrizia, una possibile salvezza?

R – “L’amore è un altro dei temi di questo romanzo. L’amore giovane tra Fabrizia e Walter – il filo che lega i tre racconti – è un amore impossibile, vissuto come un lutto, indimenticabile e infine recuperato attraverso l’immaginazione. Ma anche l’amore tra Fabrizia e Renzo è difficile, perché nasce tra due persone mature, che si incontrano quando ciascuna ha alle spalle una vita vissuta separatamente e quindi porta, nel nuovo amore, i fantasmi provenienti dal passato. Anche nel modo in cui viene trattato questo tema – che resta desiderio e bisogno d’amore – affiora l’ispirazione realistica del romanzo.”