MORE VENETO
Romanzo
Padova, Cleup, 2017
In copertina:
Giorgione, Ritratto di vecchia (Col tempo), Venezia, Gallerie dell’Accademia
Il libro è dedicato alla memoria della madre dell’autrice, insegnante Anna Arciero
Maria Pia Codato, “Daria Martelli”, intervista, in Dialogando, a cura di Maria Pia Codato, Prefazione di Fabio Bui, Padova, Grafiche Venete, 2019, pp. 49-58.
Daria Martelli
Promuovere la scrittura per contrastare
il dilagante “analfabetismo di ritorno”
Un impegno costante nella cultura, come docente, come storica e come scrittrice. Daria Martelli, laureata in Letteratura greca antica, è stata assistente universitaria e docente di Lettere nelle Scuole superiori, ha collaborato con il quotidiano Il Gazzettino, con numerose riviste e con la RAI, con testi culturali per trasmissioni. È autrice di narrativa, di teatro e di saggistica.
Tra le opere di narrativa, ricordiamo i racconti Il gioco dei tradimenti e i romanzi Le vite di Fabrizia, Il riso della soubrette, More veneto. Tra le opere teatrali, il dramma Le streghe, rappresentato più volte, anche nell’adattamento a monologo Caterina, una strega del Cinquecento, elaborato dalla stessa autrice; Il giardino veneziano; Donne perdute. Adattamento teatrale di Lettere dalle case chiuse. Tra i saggi, Polifonie. Le donne a Venezia nell’età di Moderata Fonte (seconda metà del secolo XVI); Le parole di ieri sulla donna. Una ricerca di genere sulle nostre radici culturali; Scrittrice o scrittore? Una ricerca di genere sulla creatività letteraria; Per l’italiano in Italia, un’analisi sullo stato attuale della lingua, pubblicata dalla Società Dante Alighieri di Padova.
Quali sono i temi del suo nuovo romanzo More veneto, che nel 2018 ha vinto il Premio “Il Paese delle donne”?
More veneto,“secondo l’uso dei veneziani”, indica il modo di datazione in uso ai tempi della Serenissima, quando si faceva incominciare l’anno il primo di marzo, un titolo che allude ironicamente alla singolarità di Venezia, dove è ambientata la vicenda. Un antico libro, ritrovato per caso, mette in una relazione di empatia due donne: una negli anni Ottanta, la protagonista, segnata da dolorose vicende familiari, e una vissuta a Venezia nel Cinquecento, autrice di un dialogo dimenticato. Questo libro introduce Lorenza nel mondo dell’antica scrittrice e in una dimensione temporale, che in questa città si schiude in ogni dove. Un’esperienza che provoca in lei un nuovo equilibrio.
Il ritrovamento del libro adombra la riscoperta del dialogo cinquecentesco Il merito delle donne di Moderata Fonte, rinvenuto da Anna Jaquinta, alla fine degli anni Settanta, nella Biblioteca Nazionale di Firenze. Sulle fonti storiche che informano sulla vita di questa scrittrice veneziana è costruito il personaggio di Limpida Sorgente, rievocato nei suoi momenti di vita attraverso dei flashback. Ho voluto trarre questa straordinaria figura femminile, riemersa dall’oblio nel nostro tempo, fuori dall’ambito degli studi specialistici e farla rivivere nella narrativa.
Da una pagina del romanzo:
“Sono seduta a un tavolo della biblioteca, nel suo religioso silenzio, mentre fuori tumultua il Carnevale. Fuori, vicina e lontanissima, è la Piazza, anch’essa, come un’archeologica collina di Hissarlik, costituita di vari strati di memorie storiche, l’uno sull’altro, e occupata dalla folla turistica come da un esercito straniero, indifferente a quanto ha sotto i piedi.
Ho davanti a me il libro di Limpida Sorgente, l’esemplare di quell’ultimo anno del Cinquecento, che porta su di sé i segni di innumerevoli peripezie e fortunosi passaggi di luogo in luogo: strappi, macchie, l’orma indelebile dell’acqua penetrata tra i suoi fogli, annotazioni manoscritte a margine di antichi e irriguardosi lettori. […]
Guardo il ritratto, che mi guarda. «Ho detto tutto per la compassione che mi fanno molte tribolate donne che io conosco». La frase, alla fine del dialogo, mi rivela il senso della sua opera e anche quello del rapporto tra me e lei, attraverso i secoli. Mi sento insieme a questa donna, come mi sembra che lei mi chieda, e a tutte le donne del suo tempo, quelle che lei conosceva, con la sua medesima compassione: le mogli che dovevano scontare con la vita il loro obbligo di generare, le donzelle rinchiuse nelle case, le monache rinchiuse nei monasteri, le bambine popolane prostituite nelle strade e nelle locande, le artigiane impegnate in un lavoro misconosciuto. Insieme a loro, oltre le differenze di costume, di ceto, di cultura, perché la sofferenza, la mortificazione, la morte dello spirito nella sopravvivenza del corpo sono sempre uguali per tutte e per tutti.
Ho la sensazione che fossero loro veramente la Venezia di quel tempo. E che la loro sia la Storia ancora da raccontare, degna di memoria quanto la battaglia di Lepanto”.
Quale legame ha quest’opera con le altre che ha pubblicato nel corso degli anni?
Ogni opera ha la sua ispirazione e riflette una diversa stagione della vita dell’autrice. Tuttavia i tre generi che pratico, la narrativa, il teatro e la storia sociale in prospettiva antropologica, pur avendo differenze specifiche, sono contigui per la forma e per l’oggetto: la vita vissuta nel passato e nel presente.
Ciò che soprattutto lega le mie opere è l’ottica di genere, quella di un’autrice che vuole essere una “scrittrice” e non uno “scrittore”, come invece pretendevano le scrittrici fino a pochi anni fa e come ho ricordato in un mio saggio, che nel titolo contrappone i due termini. L’ottica di genere è anche una fonte di originalità, infatti fa vedere ciò che non si è mai visto.
Che cosa significa per lei scrivere?
Per chi lo fa con un impegno costante scrivere diventa un abito mentale, l’abitudine a esprimersi e a pensare con precisione e complessità, nonché a guardare con lucida attenzione la realtà, insomma un modo di essere. Nell’era tecnologica è una forma di resistenza, per restare compiutamente umani. Peraltro la scrittura dovrebbe essere promossa in tutti, giovani e adulti, per favorire la funzione formativa che svolge a ogni livello e non meno per contrastare il dilagante “analfabetismo di ritorno”, denunciato dal linguista Tullio De Mauro.
Un libro è tanto più efficace quanto più incide nell’animo di chi lo legge?
Spera di lasciare una tale traccia l’autrice o l’autore, mentre scrive, rivolgendosi ai suoi lettori “ideali”. Ma il rapporto tra un libro e i lettori “reali” è quanto di più aleatorio ci sia e va ben al di là delle intenzioni dell’autrice o dell’autore. L’industria editoriale può favorirlo oppure ostacolarlo, a prescindere dalle qualità intrinseche dell’opera. Un romanzo di evasione può essere preferito dalle masse, quindi avere un prevalente valore “commerciale”, a uno che faccia riflettere e si proponga appunto di “incidere nell’animo” e di arricchire la coscienza umana. E ogni lettore recepisce un medesimo libro in modo diverso, secondo la sua disposizione e il suo tipo di intelligenza, nonché il gusto e la cultura della sua epoca. Libri svalutati al loro tempo furono riscoperti nei secoli seguenti con una loro insospettata carica emotiva e intellettuale. Per esempio, il dialogo Il merito delle donne di Moderata Fonte, ignorato per quattro secoli, divenne un libro illuminante e coinvolgente per le donne a partire dagli anni Settanta del Novecento.
Ha indagato l’universo femminile in varie epoche. Quale differenza vede tra le donne di ieri e quelle di oggi?
Dopo la rivoluzione culturale degli anni Settanta, uno spartiacque nella storia delle donne, la condizione femminile ha avuto una rapida evoluzione, quale mai nei secoli. Un progresso, sempre più accelerato, che ha portato a una parità giuridica e formale. Tuttavia ancora oggi persiste una disparità sostanziale nel lavoro, nelle retribuzioni, nei ruoli dirigenti. Il potere economico, politico, sociale, culturale resta maschile. Il dato più drammatico di una disparità di fatto è la variegata violenza di genere che continua a segnare le relazioni personali in ogni ambiente e a ogni livello socioeconomico. Altri risvolti della condizione femminile possono essere colti nel vissuto, oggetto privilegiato della narrativa, per esempio quelli che emergono nel mio romanzo More veneto: la ricerca di nuove forme di convivenza tra uomini e donne, che salvaguardino la libertà femminile, una nuova concezione della maternità, non più intesa come ancestrale dovere, ma come libera scelta, oppure, per le donne nuove, la perdita di un modello, che era pur sempre rassicurante, nella madre. Quello che ha cambiato la società è il fenomeno straordinario avvenuto dagli anni Settanta in poi, l’acquisizione di una “coscienza di genere”, che all’inizio era propria solo di avanguardie femminili e si è diffusa sempre più tra le donne. È questo che dobbiamo promuovere con l’azione culturale e politica.
Secondo lei vi può essere solidarietà tra donne?
Le donne sono sempre state educate a essere rivali tra di loro per ottenere il favore maschile. E hanno assimilato acriticamente i valori patriarcali: per la mancanza di autostima, indotta da una cultura misogina, disprezzavano e odiavano le loro simili. Nella seconda metà del Novecento venne coniata la parola «sorellanza», derivata dall’inglese sisterhood, una parola nuova, mentre le corrispondenti parole al maschile, fratellanza e fraternità, sono antichissime: fino ad allora mancava la parola per pensare un rapporto simile tra donne.
Durante gli anni del femminismo questa parola si caricò di un significato politico rivoluzionario: una solidarietà di genere, trasversale ai ceti sociali, univa le donne in nome della comune oppressione millenaria e dava loro la forza per contestare il dominante patriarcato. Fu questa solidarietà che portò alla conquista dei diritti femminili e incominciò a cambiare la società. Ma a poco a poco questo fondamentale valore è andato sbiadendo, nell’illusione che non serva più, perché la parità sarebbe ormai raggiunta, e spesso riaffiora l’antica inimicizia tra donne, come, per esempio, si è visto nel 2017 in certi interventi femminili nel dibattito sulle molestie sessuali. Oggi questo valore è mantenuto dalle donne che hanno acquisito una lucida coscienza di genere.
I suoi saggi si pongono nel filone della “cultura di genere”. Quale ne è stato il percorso?
In Italia la nuova cultura è nata negli anni Settanta nell’ambito separato del movimento femminista, come espressione di un’ottica differente. Nei decenni seguenti si è sviluppata enormemente in tutti i settori, pur rimanendo emarginata. La sua tardiva legittimazione nella cultura ufficiale è incominciata negli anni Duemila.
Particolarmente significativa è la posizione assunta ufficialmente in questi anni dall’Ateneo di Padova, che vuole porsi come “promotore e interprete privilegiato del cambiamento”. Tra le sue iniziative vanno segnalate la costituzione, nel 2003, del Forum d’Ateneo per le politiche e gli studi di genere, nel 2017 l’adozione ufficiale del linguaggio di genere e nel 2018 l’istituzione del Centro d’Ateneo “Elena Cornaro” per i saperi, le culture e le politiche di genere. Nel 1678 la laurea di Elena Cornaro all’Università di Padova fu osteggiata, per i pregiudizi misogini del tempo. Oggi la prima donna nel mondo che ottenne il titolo accademico viene assunta come un simbolo al femminile. E i simboli sono necessari per rappresentare la realtà, elaborare i concetti, affermare le idee: per pensare e per agire.
Il suo lavoro teatrale Donne perdute, rappresentato al Festival “Arte per la libertà” nel 2018 a Rovigo, ha ottenuto, secondo lei, il giusto riconoscimento del suo significato?
Donne perdute ha avuto una collocazione congeniale in questo Festival, diretto da Michele Lionello, che attraverso l’arte, potente linguaggio universale, si propone di sensibilizzare le coscienze sui diritti umani. E finalmente come diritti umani sono riconosciuti anche quelli delle donne. Con il mio lavoro teatrale ho voluto proporre il grave fenomeno della prostituzione femminile che, non solo a teatro, è stata un tabù, un argomento troppo scabroso, a meno che non fosse edulcorato in chiave sentimentale e melodrammatica.
Ho adattato per il teatro un documento storico, Lettere dalle case chiuse, inviate a Lina Merlin dalle prostitute dei bordelli legali e pubblicate nel 1955 a cura della stessa Merlin e di Carla Barberis. Cambiando il punto di vista, cambia la percezione del fenomeno: quella che per il cliente era la “casa del piacere”, per le prostitute, lì rinchiuse, era un luogo di violenza, alienazione, dolore, malattia e morte. L’allestimento di Teatro Nexus, con la regia di Giorgia Forno, sottolinea appunto questi aspetti, anche con l’intelligente uso registico dei “tariffari”, che ho pubblicato nel volume, proprio per offrire spunti alla regia.
DIALOGANDO
Quali sono gli “ingredienti” che gli uomini credono necessari per condurre una vita serena accanto ad una donna
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